(Rough) Translator

28 febbraio 2009

Shidaisaurus Reloaded

Un interessante esemplare di dromaeosauro


Questa foto ritrae un esemplare di theropode esposto recentemente a Napoli. Ringrazio Federico Fanti e Lukas Panzarin: il primo, per aver realizzato la foto; il secondo, per avermela inviata (prossimamente tornerò a parlare di questi due eroi della “NGPI”, la Nuova Generazione Paleontologica Italiana...).

Sebbene non sia presente una scala metrica, è probabile che l’intera lastra non superasse il metro di lunghezza. L’esemplare presenta una morfologia generale maniraptoriana: lunghi arti anteriori con mano gracile ed allungata. Inoltre, la presenza di scapola più corta dell’omero, scapolocoracoide a forma di “L”, e secondo unguale del piede ipertrofico indica che è un paraviale. La morfologia degli unguali della mano, fortemente incurvata dorsalmente, è tipica dei dromaeosauridi. Anche la marcata curvatura ventrale del processo postacetabolare dell’ileo indica uno status dromaeosauridae. Non è chiaro dalla foto se le prezygapofisi caudali siano allungate, mentre sembrano evidenti le estensioni iperftrofiche dei chevrons: pertanto, è molto probabile che si tratti di un Dromaeosauridae più derivato di Buitreraptor. Le proporzioni tra scapola, omero ed avambraccio propendono per collocarlo tra i microraptori. Ciò è in accordo con l’origine cinese del fossile.

A questo punto, l’aspetto più interessante del fossile è il cranio. Esso è molto grande in rapporto alla colonna vertebrale presacrale. Anche se è possibile che la regione naso-premascellare sia mancante, è interessante la proporzione del rostro, relativamente corto. La finestra antorbitale è più alta che lunga, ma non è chiaro se e quanto sia un artefatto preservazionale. Indipendentemente da alcuni dettagli non chiari dalla foto, la forma e dimensione del cranio sono bizzarre per un dromaeosauridae microraptorino. Tuttavia, esse possono essere spiegate facilmente ipotizzando che questo esemplare sia subadulto: infatti, cranio sviluppato e muso corto sono tipici tratti giovanili. Purtroppo, non è possibile dalla foto verificare altri indicatori dell’età, come il grado di ossificazione tra archi neurali e centri o la texture della superficie ossea.

Se qualcuno ha immagini differenti di questo esemplare, mi contatti!

27 febbraio 2009

Evoluzionismo nella mia città - 2a parte. Conferenza di J. Horner (Montana State University) : "Causing a Dinosaur Extinction"

Dopo l'annuncio sul Darwin Day del 5-6 Marzo, ecco una notizia più strettamente dinosaurologica.
Due Conferenze di J. Horner, della State University del Montana (USA), notissimo per i suoi studi su hadrosauridi e tyrannosauridi.

Lunedì 16 Marzo 2009, Parma (Italy).


Nella foto, A. Carpana (organizzatore dell'evento) e J. Horner.

Ulteriori Informazioni

26 febbraio 2009

Shidaisaurus jinae Wu et al. (2009) e l'evoluzione dei tetanuri basali (aggiornato il 28 Febbraio)

Nel breve post che citava il nuovo stegosauro portoghese ho accennato ad un interessante nuovo theropode, appena pubblicato. Esso è Shidaisaurus jinae Wu, Currie, Dong, Pan & Wang (2009), e proviene dalla parte superiore della Formazione Lufeng (inizio del Giurassico Medio) della Cina. L’età del fossile è già un indizio della sua importanza: come ho scritto altre volte, l’intervallo Giurassico Inferiore-Medio è la zona più misteriosa e meno nota dell’evoluzione theropode, nonché quella che vide l’affermazione di tetanuri e ceratosauri.

Shidaisaurus è noto da un esemplare frammentario ma articolato, di taglia media (ileo e pube sono lunghi 60-63 cm, che, paragonandolo ad altri theropodi di taglia analoga, corrisponde ad una lunghezza totale approssimativa di circa 6 m: tuttavia, la non completa ossificazione del sacro suggerisce che l’animale non fosse pienamente maturo al momento della morte) comprendente la parte occipitale e la parte caudale del tetto cranico, la colonna vertebrale fino alle prime tre caudali (purtroppo, buona parte delle regioni cervicale e quella pettorale delle vertebre sono coperte dai resti di un sauropode: data la condizione articolata del theropode, sarà interessante stabilire la tafonomia di questa associazione) ed un cinto pelvico quasi completo. La coesistenza di resti cranici, vertebrali e pelvici è molto importante, perché permette di confrontare questo theropode con altri theropodi frammentari dello stesso piano geologico. Shidaisaurus ha un’interessante combinazione di caratteri primitivi, in particolare nell’ischio e nelle vertebre, assieme ad alcuni caratteri derivati nel cranio, che ricordano gli allosauroidi.

Gli autori constatano le somiglianze e le differenze con altri theropodi cinesi del Giurassico Medio (Xuanhanosaurus, Gasosaurus, “Szechuanosauruszigongensis, Chuandongocoelurus, Monolophosaurus ed i sinraptoridi), ma non propongo alcuna ipotesi particolare per collocarlo più nel dettaglio. Essi attribuiscono Shidaisaurus a Tetanurae, rimandando a futuri studi l’identificazione delle sue probabili affinità. Tuttavia, esso è nondimeno sufficientemente descritto per poterne testare la filogenesi. Rimarcando la posizione stratigrafica “chiave” ed il mix di caratteri presenti, questo nuovo theropode ha le potenzialità di essere molto utile per risolvere alcune incertezze nella filogenesi dei tetanuri basali. Pertanto, ho immesso Shidaisaurus in Megamatrice, per la quale è codificabile per circa 125 caratteri.

Aggiornato il 28 Febbraio: la mia analisi preliminare colloca Shidaisaurus alla base di Carnosauria. Omettendo i taxa instabili dalla visualizzazione (con l'opzione PRUNE di PAUP), risulta che esso è più derivato di Monolophosaurus, ponendosi sister-group del nodo "Neovenator + Allosauroidea" (gli ultimi risultati dell'analisi, derivanti dall'immissione di nuovi dati, tra cui la recente monografia di Neovenator, non paiono avvalorare uno status carcharodontosauridae per questo theropode inglese).

Questo risultato indicherebbe che all'inizio del Giurassico Medio esisteva già una differenziazione di almeno 3 linee di carnosauri.

Bibliografia:

Wu X., Currie P.J., Dong Z., Pan S. & Wang T., 2009 - A New Theropod Dinosaur from the Middle Jurassic of Lufeng, Yunnan, China. Acta Geologica Sinica 83: 9-24.

Evoluzionismo nella mia città - 1a parte



Un bel sito tutto dedicato a Spinosauridae

Vi segnalo un sito in lingua francese, molto ben curato, Les Spinosauridae, di Christophe Hendrickx.
Potete visitarlo clikkando sul titolo del post.

25 febbraio 2009

Se pensate che il dinosauro della giornata sia uno stegosauro col collo lungo... beh... avete ragione solo a metà!



Che giornata!
Nel tardo pomeriggio il mitico Italian King of Ceratopsians, Lukas Panzarin, mi informa della descrizione dell'ormai quasi mitologico stegosauro portoghese dal collo lungo, Miragaia longicollum Mateus et al. (2009). Ovviamente, ero già esaltatissimo per questa straordinaria scoperta, della quale sapevo solo alcuni rumors da parte di Simone Maganuco (che vide i resti in anteprima), e non avrei mai pensato che, invece, la giornata non era affatto finita!

UN NUOVO THEROPODE, MOLTO IMPORTANTE!


Prossimamente, su Theropoda...

Il colore del piumaggio dei maniraptori fossili (Vinther et al., 2008)


Le penne dei maniraptori derivati (Paraves e Oviraptorosauria) sono le strutture tegumentarie più complesse dell’intero Vertebrata. Nelle forme attuali, le penne rivestono un ruolo fondamentale nelle interazioni visive, sia tra membri della stessa specie che in ambiti intrespecifici. La colorazione è un attributo importante di tutti i diapsidi, e quelli piumati non sono da meno. Ciò è valido per i taxa attuali, e non abbiamo motivi per dubitare che accadesse lo stesso nel passato.

Le penne fossilizzano in due modi fondamentali: sotto forma di impronte nel sedimento, oppure come tracce carboniose. La natura e la composizione delle seconde è stato oggetto di dibattito: quale è l’origine tafonomica di queste tracce? L’ipotesi prevalente riteneva che esse fossero il prodotto dell’attività di decomposizione operata da batteri. A sostegno di tale ipotesi era l’osservazione che le tracce carboniose sono costituite da strutture globulari, lunghe alcuni micrometri, molto simili a batteri. Tuttavia, altre interpretazioni sono possibili. Ad esempio, esse potrebbero essere tracce delle originarie strutture pigmentarie, dei particolari organuli cellulari detti melanosomi. Dato che i melanosomi delle cellule animali hanno forme e dimensioni analoghe a quelle dei batteri (vi ricordo che un batterio è molto più piccolo di una cellula animale, ed ha dimensioni, e molto altro, in comune con gli organuli delle cellule animali e vegetali), le due ipotesi sono ugualmente probabili. Tuttavia, l’eventualità che le tracce carboniose siano resti del pigmento apre scenari interpretativi impossibili nel caso che questi resti siano dovuti a attività batterica post-mortem.

Per testare queste ipotesi, Vinther et al. (2008) hanno studiato alcuni fossili di penne aventi tracce carboniose. Il loro metodo è molto elegante, e merita di essere descritto nei dettagli.

Essi hanno focalizzato i loro studi su due fossili: un cranio di uccello dall’Eocene di Fur (Danimarca) che conserva tracce del piumaggio e la struttura molle dell’occhio; ed una penna isolata di un maniraptoriano dalla Formazione Crato, del Cretacico del Brasile (una penna isolata, in sedimenti mesozoici, non può essere attribuita con sicurezza ad un uccello, dato che potrebbe essere ugualmente di un altro tipo di paraviale, come un dromaeosauro, oppure ad un oviraptorosauro). La scelta di questi due fossili particolari è basata su caratteristiche particolari che li rendono idonei a testare le ipotesi citate sopra.

L’analisi con metodologie a raggi X indica che il fossile di Fur presenta tracce carboniose dell’interno dell’occhio, molto probabilmente tracce della retina. La retina è un tessuto ricco di pigmenti fotosensibili, simili ai pigmenti delle penne (entrambi hanno la stessa origine embriologica). La comparazione tra le tracce di retina e le penne dello stesso fossile ha permesso di verificare la loro stretta somiglianza strutturale.

Il fossile di Crato conserva bande trasversali scure, ricche di materiale organico, alternate a fasce prive di carbonio, formate solamente da tracce sul sedimento della roccia. Questa bizzarra alternanza di tracce carboniose nella penna, intervallate da bande prive di carbonio, è incompatibile con l’ipotesi batterica: perché i batteri avrebbero dovuto decomporre maggiormente alcune zone della penna e permettere la fossilizzazione di altre? Al contrario, l’ipotesi che attribuisce le tracce a pigmenti è compatibile con questo fossile: alcuni pigmenti, come l’eumelanina (che conferisce il colore scuro alle penne), sono più resistenti alla decomposizione di altri. Pertanto, è probabile che le fasce alternate della penna di Crato rispecchino l’originaria alternanza di fasce di eumelanina e fasce di altri pigmenti meno resistenti: di conseguenza, la penna originaria era colorata a bande trasversali scure (eumelanina) e chiare. Purtroppo, non è possibile stabilire quale fosse il pigmento originario delle fasce chiare: quello che possiamo dire è che la penna originaria era colorata a bande scure alternate con bande di un diverso colore. Tuttavia, dato che la struttura e la disposizione dei melanosomi influisce su alcuni colori (come il rosso ed il bruno, oltre al nero) e sull’iridescenza, si apre la possibilità, molto suggestiva, di poter correlare la microstruttura delle tracce con alcuni colori originari, e quindi, di poter ricostruire parte della colorazione perduta.

Pertanto, questo studio dimostra che le tracce carboniose delle penne fossili conservano l’originaria struttura di melanina (ma non di altri tipi di pigmento). Questo dato ci dà un piccolo squarcio sull’originaria colorazione dei maniraptori, almeno per le forme che hanno conservato tracce carboniose di melanina: ad esempio, Enantiophoenix, conserva le penne in forma di tracce carboniose molto scure: quindi è probabile che in vita avesse un piumaggio scuro, forse nero. Alcune penne isolate di maniraptori, provenienti dalle stesse formazioni Libanesi di Enantiophoenix, non mostrano tracce carboniose, bensì solo l’impronta sulla roccia (osservazione personale di esemplari conservati al Museo di Storia Naturale di Milano): non sappiamo però se ciò rifletta differenti condizioni di fossilizzazione o un’effettiva differenza nel pigmento originario (ricordo ad alcuni miei lettori che in paleontologia l’assenza di prove NON è una prova di assenza... sopratutto per strutture fragili come le penne...). Da ricordare, infine, che in Caudipteryx sono presenti bande chiare e scure nelle penne della coda, del tutto simili al fossile di Crato: è pertanto probabile che le penne di questo theropode fossero colorate a bande alternate chiare e scure.

Bibliografia:

Vinther J., Briggs D.E.G., Prum R.O. & Saranathan V., 2008 - The colour of fossil feathers. Biol. Lett. 4, 522–525. doi:10.1098/rsbl.2008.0302

24 febbraio 2009

Un Misterioso Rettile Gigante

Questo post si propone di ricostruire un grande rettile mesozoico, che è rimasto un enigma per molti decenni. Non citerò subito la fonte da cui ho tratto le sue caratteristiche, così che possiate usare la vostra intelligenza per ricostruirlo, senza preconcetti o indizi fuorvianti.

A prima vista, quando lo scoprii in letteratura, pensai immediatamente che fosse un theropode, per quanto strano e bizzarro. Ma ora, onestamente, penso che potrei essermi sbagliato: in fondo, il mio occhio “theropodologico” ha la tendenza a vedere theropodi dovunque, e potrebbe trascurare inconsciamente altre ipotesi...

I resti più completi di questo animale furono rinvenuti circa un secolo fa, ma da allora non è stato possibile aumentare le informazioni riguardanti la sua anatomia ed ecologia. Nondimeno, dalle ossa rinvenute, è possibile ricostruire con sufficiente dettaglio il suo aspetto.

Si può ragionevolmente ricostruire uno scheletro sulla base di pochi resti frammentari? Per fare ciò, esistono due impostazioni principali: la prima, detta “inferenza filogenetica”, si basa sulla posizione filogenetica dell’animale per dedurre, sulla base di comparazioni con i parenti più prossimi, le caratteristiche andate perdute; la seconda, detta “analogia funzionale”, determina le caratteristiche anatomiche perdute basandosi su equivalenti ecologici e funzionali dell’animale, indipendentemente dal grado di parentela. Il buon senso ci dice di applicare contemporaneamente entrambi i metodi, integrandoli a vicenda. Ma mettiamo il caso che, come in questo caso, l’inferenza filogenetica sia incerta, se non addirittura impraticabile. In fondo, le ricostruzioni filogenetiche sono solo ipotesi, spesso basate su dati scarsi o parziali. Io stesso, come ho detto prima, non so con certezza se è un theropode. Al contrario, le condizioni ecologiche hanno la capacità di modellare in maniera molto simile animali privi di parentela, e pertanto, una volta individuate, ci danno ottimi indizi sull’anatomia di un animale, persino nei casi in cui è molto frammentario. Per una volta, quindi, voglio lasciare da parte le procedure filogenetiche, e basarmi solo sull’ecologia, sui dati ambientali e funzionali, per ricostruire l’enigmatico rettile.

Partiamo dai dati paleoambientali: lo scheletro proviene da una piana deltaica, la grande distesa pianeggiante costellata di lagune e solcata dai meandri di un grande fiume che si getta sul mare. Pesci e coccodrilli abbondano in questi strati. Si tratta quindi di un ambiente semi-acquatico.

Cosa ci dice l’anatomia dei pochi resti rinvenuti?

L’animale ha lunghi denti conici, di sezione circolare, privi di denticoli. Le mascelle sono espanse nella zona rostrale, a formare una struttura simile alla spatola di alcuni uccelli piscivori, ma, sopratutto, molto simile al muso di alcuni coccodrilli acquatici, come i gaviali attuali o i dyrosauri del Cretacico-Paleogene. Il rostro è molto allungato. Come nel caso dei coccodrilli, il palato osseo secondario è molto allungato, segno che le narici interne erano molto approfondite. A parte questi scarsi resti del cranio, sono note alcune vertebre. Non esiste un consenso unanime su quale zona della colonna vertebrale debbano essere collocate. Esse sono molto mobili, come deducibile dalle articolazioni semisferiche tra i centri adiacenti. Si presume quindi che l’animale avesse una marcata mobilità vertebrale. Un altro aspetto notevole di questo animale è dato dai processi neurali, lunghissimi. Essi ricordano le apofisi tipiche della coda degli animali nuotatori, e potrebbero indicare l’esistenza di una pinna. ben sviluppata. Non si conoscono gli arti, quindi non sappiamo se esso ne fosse munito, né se fossero sviluppati o regrediti. Le dimensioni dell’animale indicano una taglia superiore alle due tonnellate.

Qual’era l’aspetto di questo animale?

Basandosi sui dati noti, che ho esposto sopra, questo rettile aveva muso e denti da coccodrillo, vertebre molto mobili, e processi neurali che indicano l’esistenza di una pinna. Esso viveva in ambienti semiacquatici, simili a quelli dei coccodrilli attuali.

Dubito che questo animale fosse un theropode. Esso ricorda molto un rettile semiacquatico, come un coccodrillo, o un choristodero, forse un varanoide. Dentatura, forma del rostro e anatomia delle vertebre sono compatibili con i dati ambientali, e suggeriscono un potente nuotatore, predatore di animali acquatici.

Pertanto, in base alle informazioni integrate sulla base dell’analogia ecologice e funzionale, ecco la ricostruzione che propongo:

Questo rettile è un animale simile ad un coccodrillo: ha un lungo muso armato di denti conici, occhi e narici probabilmente dorsali ed elevati, collo corto, dorso e coda molto mobili, capace di movimenti sinuosi, i quali imprimevano una potente spinta natatoria, accentuata dalla forma a pinna della regione caudale. Gli arti probabilmente erano molto corti, simili a quelli dei coccodrilli, forse sostituiti da pinne, come nel caso dei mosasauri. Questo rettile era un predatore piscivoro, e, in base alla stima della sua massa ed alla probabile riduzione degli arti, era prevalentemente acquatico, poco adatto a spostarsi sulla terraferma.

Ah, dimenticavo, quello scheletro ha un nome: è stato battezzato Spinosaurus aegyptiacus, da E. Stromer.

Ovviamente, dopo tutto il ragionamento che abbiamo fatto, pensare di ricostruirlo come un bipede di terraferma, munito di collo e arti anteriori robusti, potenti arti posteriori parasagittali e piede tridattilo, ovvero, ricostruirlo come un theropode prossimo a Baryonyx seguendo la logica dell’inferenza filogenetica, sarebbe un’ipotesi molto meno probabile, oltre che puramente speculativa. La filogenesi, è risaputo, è solo una mania di fanatici del computer, una forzatura di moda che non tiene conto della vera essenza dell’evoluzione... (spero si legga il sarcasmo).

I Theropodi e l'evoluzione delle piante terrestri


Il Cretacico fu un periodo geologico molto lungo, più dell’intera Era Cenozoica. Durante gli 80 milioni di anni del Cretacico il mondo subì una grandiosa trasformazione geografica ed ecologica, che stabilì le fondamenta dell’attuale biosfera. In particolare, i tre eventi più significativi avvenuti durante questo periodo, ed ancora in atto, furono la frammentazione di Pangea, la grande radiazione adattativa degli insetti olometaboli (ditteri, lepidotteri, coleotteri e imenotteri) e l’affermazione delle piante a fiore, le angiosperme. L’espansione cretacica delle angiosperme è stata spesso correlata alla co-evoluzione degli insetti impollinatori. Tuttavia, anche i vertebrati hanno un ruolo importante nell’evoluzione delle angiosperme, sia come impollinatori che come dispersori dei semi, oltre che come consumatori (ovvero, come “predatori delle piante”). Robert Bakker (1978, 1986) fu il primo a proporre un modello di co-evoluzione tra angiosperme e dinosauri erbivori (uso questo termine, anche se improprio: sarebbe meglio usare "fitofagi"). Il modello di Bakker ipotizza che esisterebbe una relazione tra la trasformazione dalle faune dinosauriane del Giurassico Superiore, dominate da sauropodi e stegosauri, a quelle del Cretacico Medio-Superiore, dominate da ornithischi masticatori come ornithopodi e ceratopsi, e la trasformazione nella flora degli stessi periodi: dalla flora giurassica, dominata da conifere e cycadine, a quella cretacica, dominata da angiosperme. Secondo Bakker, l’evoluzione dei dinosauri brucatori avrebbe selezionato vantaggiosamente le angiosperme, a svantaggio delle altre piante.

Il modello di Bakker è eccessivamente semplice, oltre che ambiguo. In più punti, esso è chiaramente errato. Ad esempio, Bakker sembra focalizzarsi principalmente sulle faune laurasiatiche, dimenticando la persistenza dei sauropodi nel gondwana cretacico: ciò rende il suo modello meno generale, ma al più locale. Inoltre, egli ritiene che le faune erbivore giurassiche fossero dominate da erbivori specializzati a nutrirsi delle fronde, mentre quelle cretaciche sarebbero fondamentalmente di brucatori di piante basse. Per sostenere ciò, Bakker è costretto a ricostruire gli stegosauri e i diplodocici come animali adatti a sollevare la testa in alto (addirittura, ricostruendo gli stegosauri con posture bipedi), sebbene le evidenze anatomiche indichino che entrambi i gruppi avevano una postura del collo e della testa suborizzontale. Aldilà di queste forzature bakkeriane, il vero punto chiave per verificare o falsificare l’ipotesi di una co-evoluzione tra dinosauri e angiosperme è dimostrando una precisa correlazione cronologica tra i due eventi. Infatti, se l’espansione delle angiosperme e le variazioni faunistiche fossero diacroniche (ovvero, non avvenissero nello stesso intervallo geologico), bensì separate da molti milioni di anni, l’ipotesi di Bakker risulterebbe invalidata.

In un recente studio Butler et al. (2009) hanno confrontato la diversità floristica durante il Cretacico con quella dei dinosauri erbivori (sauropodi, ornithopodi e tre gruppi di theropodi con possibili adattamenti erbivori, ovvero, therizinosauri, ornithomimosauri e oviraptorosauri). Lo studio ha analizzato l’abbondanza relativa ed assoluta dei vari taxa di Dinosauria e dei principali taxa di piante terrestri, per stabilire i momenti di espansione o contrazione dei vari gruppi. Sebbene sia possibile che il record fossile, almeno per i dinosauri, non sia una fedelissima registrazione delle fasi, è comunque utile stabilire quanto i dati attuali sostengano o meno l’intrigante ipotesi di Bakker.

Con piacere degli scettici delle ipotesi semplicistiche, come me, e con dispiacere dei bakkeriani, il record fossile non mostra alcuna correlazione significativa tra variazioni floristiche e variazioni faunistiche. Questo studio conferma precedenti analisi filogenetiche e stratigrafiche (Weishampel & Jianu, 2000; Barrett & Willis, 2001) che avevano già falsificato l’ipotesi di Bakker. A ben vedere, una precisa quantificazione delle variazioni flora-fauna indica che l’unico gruppo di dinosauri che mostra una variazione legata a variazioni nella flora è Stegosauria: essi sembrano variare positivamente in relazione con due gruppi vegetali, cycadine e bennettitali, ma negativamente con le angiosperme. Quindi, questo potrebbe essere l’unico reale caso di co-evoluzione tra dinosauri e piante. Per il resto, l’origine e l’espansione dei principali gruppi di dinosauri erbivori non paiono correlate con analoghi fenomeni nelle piante. Ciò è quanto dovremmo aspettarci confrontando gruppi così ampi e diversificati come sono i dinosauri e le piante vascolari: sarebbe terribilmente semplicistico credere che a questa scala megaevolutiva sussistano relazioni semplici di causa ed effetto (infatti, una correlazione pare evidente solo tra gruppi ristretti e specifici, come stegosauri e cycadine).

I miei lettori più attenti potrebbero ora chiedere: “Ok, tutto molto interessante, ma quando parli dei theropodi?”. Lo studio di Butler et al. (2009) include therizinosauroidi, ornithomimosauri e oviraptorosauri nella lista dei dinosauri erbivori. Di questi tre taxa, solamente Therizinosauroidea è inequivocabilmente erbivoro. La mia interpretazione del regime alimentare degli altri due gruppi è più cauta, e non escluderei automaticamente un possibile status onnivoro (ed in tal caso, sarebbe corretto citare anche i troodontidi più derivati). L’onnivoria implicherebbe una ancora più debole correlazione tra evoluzione di questi theropodi e piante terrestri: ed in effetti, Butler et al. (2009) non identificano una stretta correlazione tra variazioni floristiche e theropodi. Tuttavia, non posso che dispiacermi per una pecca fondamentale dello studio: non tutti i possibili dinosauri erbivori sono stati inclusi! Sebbene lo studio si sia focalizzato sui presunti brucatori e consumatori di parti verdi, non bisogna dimenticare che un’intensa co-evoluzione esiste tra piante e animali granivori (che si nutrono di semi) e frugivori (che si nutrono di frutti). Attualmente, i vertebrati frugivori e granivori più diffusi sono proprio i theropodi, ovvero gli uccelli. Butler et al. (2009) dimenticano completamente questa importantissima componente delle faune a dinosauri, e quindi, a mio avviso, non hanno esplorato completamente la gamma delle relazioni tra dinosauri e piante.

Due fattori avvalorano la mia critica:

1- Abbiamo prove di aviali frugivori/granivori, ad esempio Jeholornis. Un analogo regime alimentare è plausibile per altri taxa di uccelli mesozoici, come Jixiangornis, Dalianraptor, Yandangornis, Sapeornithidae, Gobipterygidae.

2- Le fasi di espansione delle angiosperme e degli aviali sono entrambe localizzate nel Cretacico Inferiore, quindi meritano di essere confrontate.


Spero che questo post possa indurre futuri studi in proposito.


Bibliografia:

Bakker, R.T. 1978. Dinosaur feeding behaviour and the origin of flowering plants. Nature 274: 661–663.

Bakker, R.T. 1986. The Dinosaur Heresies. Longman Scientific & Technical, London

Barrett, P.M. & Willis, K.J. 2001. Did dinosaurs invent flowers? Dinosaur–angiosperm coevolution revisited. Biol. Rev. 76: 411–447.

Butler R.J. et al. 2009 - Diversity patterns amongst herbivorous dinosaurs and plants during the Cretaceous: implications for hypotheses of dinosaur/angiosperm co-evolution. J. of Evolutionary Biology 22: 446 – 459.

Weishampel D.B. & Jianu C.-M. 2000. Plant-eaters and ghost lineages: dinosaurian herbivory revisited. In: Evolution of Herbivory in Terrestrial Vertebrates: Perspectives from the Fossil Record (H.-D. Sues, ed.), pp. 123–143. Cambridge University Press, Cambridge.



23 febbraio 2009

Come si realizza un’analisi filogenetica di un fossile? Il caso “Enantiophoenix”

Oggi è una data speciale per me, quindi, voglio farmi un regalo!

Forse non sarà tra i post preferiti dai miei lettori, ma spero possa risultare utile per alcuni di loro, se sono interessati al modo con cui si cerca di ricostruire scientificamente l’evoluzione di un fossile. Userò come esempio un fossile che ho studiato direttamente, e del quale ho determinato la posizione nell’albero evolutivo dei theropodi, l’uccello Libanese Enantiophoenix electrophyla, del Cretacico Superiore.

La procedura di analisi filogenetica si può semplificare in una serie di fasi.

1- Descrizione morfologica del fossile. Nel caso di molti dinosauri, data la loro notevole taglia, l’osservazione è possibile direttamente, maneggiandoli, nel caso non siano eccessivamente fragili o fissi ad un substrato. Nel caso di Enantiophoenix, dato che l’esemplare è un assemblaggio di ossa mescolate a una roccia, in tutto grande come un portafogli, è stato necessario l’uso di un potente stereomicroscopio, che ha permesso di osservare dettagli minuti, quali la presenza di forami nervosi nel coracoide o di tubercoli ossei per l’inserzione di tendini nel metatarso. Questi piccoli dettagli si riveleranno importantissimi in seguito.

2- Determinazione del suo status: il fossile è attribuibile ad una specie, o può solo essere collocato genericamente in un gruppo più ampio? Dall’osservazione è risultato che il fossile è chiaramente un piccolo uccello (la forma del coracoide e l’ossificazione di sterno e metatarso non lasciano dubbi in proposito), ed ha una serie di caratteristiche mai osservata prima in altri esemplari. In particolare, ho osservato che esso ha una combinazione nuova di caratteri (acromio del coracoide basso e poco proiettato anteriormente, leggera costrizione del corpo della scapola, un piccolo tubercolo mediale sul secondo metatarso). Questi fatti ne sanciscono lo status di nuova specie.

3- Confronto con altre specie. Anche se nuova, la specie Enantiophoenix electrophyla potrebbe essere imparentata direttamente con altre già note? Per determinare ciò, è necessario conoscere le caratteristiche degli altri uccelli mesozoici, per stabilire a quali assomigli maggiormente. Ciò mi ha permesso di confermare l’osservazione preliminare che attribuiva l’esemplare agli enantiorniti: come altri enantiorniti, Enantiophoenix ha un margine laterale del coracoide convesso, un solco mediale del coracoide in cui è posto il forame del nervo sopracoracoideo, un lungo ipocleido della furcula, e un primo dito del piede robusto con grosso unguale.

4- Analisi filogenetica vera e propria. Qual’è il significato evolutivo dei caratteri che ho osservato? Sono veramente caratteri utili per stabilire le sue affinità? Come si distribuiscono questi (ed altri) caratteri nello schema evolutivo noto? Per capire ciò è necessario effettuare un’analisi filogenetica. Essa si compone di:

4a- Lista dei caratteri: tutte le caratteristiche morfologiche che possono essere utili per risolvere le relazioni di parentela di Enantiophoenix devono essere incluse nell’analisi. Ciò significa che non solo bisogna includere tutti i caratteri visibili nel fossile, ma anche quelli presenti in potenziali parenti di questo fossile, anche se attualmente non possono essere determinati in Enantiophoenix. Ad esempio, attualmente il cranio di Enantiophoenix è sconosciuto: in ogni caso, tutti i caratteri del cranio che possono essere determinati negli altri uccelli mesozoici, e che possono aiutare a ricostruire la filogenesi, devono essere inclusi. L’esclusione a priori di caratteri è un modo scorretto di effettuare l’analisi: infatti, come possiamo sapere se un carattere è utile o no, senza averlo testato? Sarà il risultato dell’analisi a dirci se il carattere è significativo o meno, e non la nostra scelta preliminare.

4b- Scelta dei taxa da includere nell’analisi. Analogamente come il caso dei caratteri, qualunque taxon possa essere significativo per ricostruire l’evoluzione di Enantiophoenix deve essere incluso. Ovviamente, dato che questo fossile è un uccello enantiornite, l’oggetto dell’analisi saranno gli enantiorniti e i loro parenti prossimi : non avrebbe senso includere taxa troppo lontani dalla sua probabile posizione. Ad esempio, non ha senso includere Triceratops o Baryonyx, mentre è utile includere forme prossime all’origine degli uccelli, come Archaeopteryx o Jeholornis. Anche se non sono enantiorniti, questi due theropodi sono infatti dei buoni esempi della possibile condizione morfologica da cui sono derivati gli antenati degli enantiorniti. Ovvero, essi sono dei buoni gruppi esterni (outgroups) per questa particolare analisi. Una volta inquadrato il gruppo di taxa utili, come procedere? Quali enantiorniti è bene includere? Le forme molto frammentarie devono essere inserite? La mia opinione è che qualsiasi forma che abbia una combinazione di caratteristiche differente dalle altre deve essere inserita, perché potrebbe essere un taxon-chiave, capace di colmare delle lacune evolutive importanti, e creare collegamenti inattesi e non ipotizzati tra specie più complete. Spesso, in analisi del passato, era invece diffusa l’idea di includere solo le forme meglio conservate e complete, scartando quelle frammentarie, anche nei casi in cui esse erano comunque potenzialmente significative: come nel caso dell’esclusione a priori dei caratteri, trovo questa procedura poco scientifica, dato che non è ben chiaro con quale criterio oggettivo si decida di escludere o includere i taxa.

Nelle mie analisi, escludo solo quelle forme così frammentarie da avere la loro combinazione di caratteri identica ad un sottoinsieme della combinazione presente in una forma più completa. (Ad esempio, se fosse risultato che la combinazione di caratteri nota in Enantiophoenix è uguale ad un sottoinsieme di quella nota in Sinornis, uno degli enantiorniti meglio noti, non avrei incluso Enantiophoenix in un’analisi, dato che, in tal caso, esso sarebbe risultato equivalente ad un “pezzo” di Sinornis).

5- Matrice. I dati così definiti vengono immessi in una matrice, la quale ha in ogni riga una specie/taxon, ed in ogni colonna uno specifico carattere. Ad esempio, la riga n°1 è Archaeopteryx, la n°2 è Jeholornis (i due gruppi esterni scelti), la n°4 Apsaravis, ecc... La colonna n°1 è il primo carattere utilizzato, il n°2 il secondo, e così via. La matrice in questione, usata nel mio articolo su Enantiophoenix, comprende 36 uccelli mesozoici e 192 caratteri relativi all’intero scheletro. Una volta compilata la matrice con la lista dei caratteri e determinate le condizioni di questi nei taxa che abbiamo incluso nell’analisi, si passa all’elaborazione dei dati. Costruire una matrice di queste dimensioni è un lavoro che può impiegare anche mesi...

6- Elaborazione dei dati. I programmi di elaborazione delle matrici filogenetiche (come PAUP o TNT) calcolano la distribuzione in forma di albero evolutivo delle specie incluse, cercando di minimizzare il numero di eventi evolutivi che dobbiamo ammettere per giustificare quel particolare albero. Sebbene possa apparire un concetto contorto, esso è lo stesso seguito dai paleontologi delle generazioni precedenti quando proponevano una filogenesi, con la differenza che ora abbiamo gli strumenti di calcolo sufficientemente complessi per poter far fare ad una macchina, in poche ore, quello che un uomo farebbe in mesi di (faticose, e noiose) comparazioni e valutazioni (ve lo dico per esperienza diretta, dato che lo feci per la mia tesi di laurea, nella quale elaborai una filogenesi dei coelurosauri senza ausilio del computer: ci vollero mesi di calcoli manuali, e numerose rappresentazioni grafiche dei singoli caratteri su diagrammi evolutivi, per ricostruire la distribuzione di 360 caratteri in 45 taxa! Sopra una certa soglia di complessità e dettaglio, elaborare "manualmente" una filogenesi di grosse dimensioni è umanamente impossibile!).

7- Discussione del risultato. Come ho appena detto, una filogenesi è un’ipotesi scientifica, quindi logico-matematica, che cerca di interpretare i dati in nostro possesso. L'ipotesi che abbiamo elaborato è valida? Ovvero, il risultato dell’analisi morfologica che abbiamo ottenuto è plausibile? Ad esempio, quanto è congruente con la stratigrafia e la paleogeografia? Produce processi evolutivi coerenti con le leggi generali dell’evoluzione? Questa è la fase della discussione del risultato, nella quale il bravo cladista prende il suo elaborato informatico, quantitativo, e ne valuta la qualità. Spesso, i critici della cladistica dimenticano che questo è il vero risultato dell’analisi filogenetica, e non la pura e semplice illustrazione di un albero. Nel caso di Enantiophoenix, il risultato ottenuto produce un’interessante ipotesi paleogeografica, in base alla quale il nuovo enantiornite libabese è una forma basale di un clade, chiamato Avisauridae, formato da specie presenti (per quel che sappiamo finora) solo in Europa e America, ma assente nelle ricche formazioni ornithologiche dell’Asia orientale: il cladogramma produce un’ipotesi qualitativamente elegante, in base alla quale gli avisauridi sono un gruppo esclusivamente occidentale, con la forme più primitive, come Enantiophoenix, localizzate nel Medio Oriente, quindi in posizione interemedia tra gli avisauridi più evoluti, Euro-Americani, e gli altri enantiorniti, noti principalmente in Asia.

Dato che nessun carattere geografico era incluso nell’analisi (che è basata solo sulla morfologia), questa ipotesi evolutiva, che unisce cladistica e paleogeografia, non può essere accusata di essere una forzatura dei dati: la filogenesi non è stata manipolata per produrre apposta questo modello paleogeografico, il quale è invece una conseguenza a posteriori di un modello basato solo sull’evoluzione morfologica.


Bibliografia:

Cau A. & Arduini P., 2008 - Enantiophoenix electrophyla gen. et sp. nov. (Aves, Enantiornithes) from the Upper Cretaceous (Cenomanian) of Lebanon and its phylogenetic affinities. Atti Soc. it. Sci. nat. Museo civ. Stor. nat. Milano, 149 (II): 293-324

22 febbraio 2009

Le Diete dei Troodontidi

Troodontidae è uno dei cladi di Coelurosauria di maggiore successo. Sebbene siano meno noti dei loro parenti Dromaeosauridi, essi costituiscono un gruppo ugualmente diversificato ed interessante. I troodontidi sono noti dal Giurassico Superiore (con un nuovo genere in fase di pubblicazione) fino alla fine del Cretacico. Se il risultato di Megamatrice non verrà modificato da nuovi dati, il bizzarro Austroraptor dalla Patagonia rappresenterebbe il più grande dei troodontidi, nonché il primo genere patagonico di questo gruppo (come ho discusso ampiamente in passato, ritengo che le evidenze a sostegno di uno status unenlagiino siano meno robuste). Ciò implicherebbe l’esistenza di una linea di troodontidi gondwaniani per colmare il gap morfologico e geografico tra Austroraptor e le forme laurasiatiche.

Quali erano le abitudini alimentari dei troodontidi? Innanzitutto, è probabile che all’interno del gruppo esistessero differenze alimantari, in relazione a stili di vita differenti. Questo discorso è basato sulle diverse morfologie presenti in questo gruppo, in particolare a livello della dentatura. Ritengo che i troodontidi siano raggruppabili in almeno 4 gruppi ecologici, che tranne un caso non coincidono con cladi monofiletici, definiti sulla base di caratteristiche quali la taglia adulta, la presenza o meno di arctometatarso(completo), l’allungamento del rostro, il numero dei denti e la presenza/forma dei denticoli dei denti.

  • Trodontidi insettivori (Jinfengopteryx, Mei). Si tratta probabilmente dell’ecologia più primitiva tra quelle dei troodontidi, condivisa con altri maniraptori basali (ad esempio, gli alvarezsauridi). Sono forme di taglia piccola (meno di 1 metro di lunghezza), con crani relativamente sviluppati, ma muso corto. I denti sono relativamente piccoli e numerosi, privi di seghettatura.
  • Troodontidi microcarnivori (Sinovenator, Sinusonasus). Questi troodontidi sono di taglia medio-piccola (meno di 1,5 metri di lunghezza), con crani relativamente allungati, numero di denti comparabile a quello degli altri coelurosauri e con denticoli piccoli e numerosi.
  • Troodontidi piscivori (Austroraptor, ?Byronosaurus). Queste forme sono di taglia medio-grande (2-5 metri di lunghezza), con rostri molto allungati, denti molto numerosi, piccoli e privi di seghettatura/denticoli.
  • Troodontidi onnivori/erbivori (Saurornithoides, Troodon). Sono le forme più derivate, di taglia media (2-3 metri di lunghezza), piede di tipo arctometatarsale, con crani relativamente corti ma rostri allungati. I denti sono numerosi, a forma di foglia, con pochi denticoli ma di grande dimensione, che ricordano la dentatura degli iguanidi (squamati erbivori) e di therizinosauri, ornithischi e sauropodomorfi basali (Holtz et al., 2000).

Questa diversificazione ecologica è sia causa che effetto del successo di questo gruppo. Un aspetto interessante è dato dalla distribuzione di queste quattro categorie ecologiche nel cladogramma: la linea che porta alle forme onnivore-erbivore può essere interpretata come l’evoluzione di forme insettivore che, con l’aumento della taglia, sono diventate prima microcarnivore e poi, seguendo due strade divergenti, si sono specializzate verso un regime più ittiofago ed uno più vegetariano.

Bibliografia:

Holtz T.R.Jr., Brinkman D.L. & Chandler C.L., 2000 - Denticle morphometrics and a possibly omnivorous feeding habit for the theropod dinosaur Troodon. Gaia 15: 159-166.

19 febbraio 2009

Daspletosaurus by Loana Riboli (2009)

L’affermazione di una nuova iconografia è il segno del consolidamento di una nuova visione della vita. In un post passato avevo discusso una plausibile ricostruzione del tegumento di un tyrannosauridae, Daspletosaurus (ma qualsiasi altro genere sarebbe stato ugualmente valido). Quel post faceva parte di una discussione avuta con la paleoartista Loana Riboli, la quale mi aveva contattato per una consulenza proprio in relazione al tegumento dei tyrannosauridi.
Con piacere, vedo che Loana ha riveduto alcune sue tavole precedenti, sostituendo l’obsoleta livrea osteodermica* con un più plausibile manto filamentoso. Con altrettanto piacere, dedico un post alla sua opera.
Loana mi ha fatto notare che, purtroppo, questa scansione non rende completamente la realtà dell’opera: anche se non appare chiaro in questa immagine, nell’originale Loana ha esteso il rivestimento di piume filamentose a buona parte della superficie laterodorsale del theropode, dalla regione caudale del cranio fino alla coda. In accordo con alcune evidenze (che, tuttavia, attendono di essere confermate da pubblicazioni scientifiche ufficiali), la superficie ventrale di addome e coda è ricoperta da piccoli tubercoli cornei, i quali, in vita, potevano essere interposti o ricoperti dall’epidermide filamentosa (nuovi dati sono necessari per stabilire questi dettagli: quella illustrata da Loana è pertanto una versione prudente, in attesa di migliori informazioni). Inoltre, in linea con le evidenze paleopatologiche, è plausibile che la regione orbitale ed antorbitale del cranio fosse invece rivestita da strutture cornee più ampie, a funzione protettiva, nonché da processi cornei nella regione nasolacrimale.
Complimenti vivissimi a Loana per la bellezza ed il dettaglio presenti nelle sue opere!
Spero prossimamente di poter mostrare altre sue opere (chi sa, forse nuovi theropodi in anteprima...).

*Consiglio vivamente ai sostenitori della vecchia iconografia di evitare di riaprire una discussione nella quale non hanno mai fornito prove convincenti, né hanno dimostrato alcuna competenza nelle argomentazioni. Cari ragazzi, non avete mai dimostrato alcuna prova, né argomento valido per le vostre credenze, quindi, evitate di ritornare per l'ennesima volta su discorsi nei quali siete stati smentiti completamente e ripetutamente. Siete liberissimi di credere all’esistenza di tyrannosauri con pelle di coccodrillo, draghi volanti e unicorni luminosi: tuttavia, questo blog è scientifico, quindi evitate di intervenire inutilmente con l’ennesimo sfogo di opinioni prive di valore paleontologico. Quello che dovevo dire sulla questione l'ho espresso dettagliatamente in precedenti post, quindi, non voglio ripetermi. Grazie.

18 febbraio 2009

Panphagia protos (Martinez & Alcober, 2009), Eoraptor e l’origine dei theropodi


Che cos’è un theropode? La domanda può sembrare banale, ma in realtà presuppone una lunga riflessione sulla natura delle categorie tassonomiche, e sulla loro “consistenza” reale. Un osservatore grossolano potrebbe rispondere alla domanda iniziale con una vaga diagnosi quale “un theropode è un dinosauro carnivoro”. Qualcuno potrebbe obiettare allora che anche un passero ed un therizinosauro sono theropodi, eppure, entrambi non sono carnivori. Allora, si potrebbe rispondere con una lista ancora più dettagliata di caratteri “tipici” dei theropodi, di presunti “caratteri chiave”. Tuttavia, anche con una lista dettagliata di caratteri anatomici a disposizione, questa risposta sarebbe probabilmente ambigua, se non errata. Probabilmente, non esiste una lista di caratteri anatomici che sia adatta a descrivere lo status di theropode ed al tempo stesso possa essere valida per tutti i theropodi. Restando ai due animali citati prima, cosa rende membri di Theropoda due animali così diversi come Passer domesticus e Therizinosaurus cheloniformis? I lettori fissi di questo blog probabilmente sanno già dove voglio portare con questo discorso: nessun carattere anatomico, di per sé, costituisce un indizio di appartenenza a Theropoda. Questo discorso non vale solo per Theropoda, ma per qualsiasi altro gruppo naturale di specie, sia attuali che fossili. Dopo anni di riflessione in proposito, ritengo che ciò che rende una specie un membro di un gruppo zoologico è solamente la rispondenza positiva alla definizione filogenetica di quel gruppo, senza alcun riferimento a presunte caratteristiche “chiave”. In questo caso specifico, è un membro di Theropoda qualunque animale che ha un legame di parentela più stretto con Megalosaurus bucklandii Allosaurus fragilis (o Passer domesticus, secondo una versione leggermente modificata della stessa definizione) rispetto a Saltasaurus loricatus. Questa definizione, apparentemente bislacca, è invece molto utile e pratica nei casi “limite” in cui si rinvengono animali molto vicini nel tempo e nella morfologia al (nebuloso) punto di origine del gruppo che vogliamo studiare.
Ad esempio, Eoraptor lunensis è o non è un theropode? Esso presenta un mix di caratteri anatomici simili a quelli dei theropodi basali, ma anche caratteri “tipici” dei sauropodomorfi più basali. Secondo alcuni, Eoraptor potrebbe essere un sauropodomorfo molto basale, secondo altri un saurischio primitivo, né sauropodomorfo né theropode. Come vedete, la semplice presenza di caratteri “chiave” non è di aiuto per rispondere alla questione. La quale, aldilà della pura collocazione “filatelica” della specie, è di fondamentale importanza per chi voglia ricostruire l’evoluzione a larga scala dei dinosauri. Infatti, sapere se Eoraptor è o no un theropode ci dà indicazioni se esso sia più o meno utile per ricostruire l’ecologia, la fisiologia e l’anatomia ancestrale di questi dinosauri. Ripeto, solo una dettagliata analisi filogenetica (ovvero, la ricostruzione della distribuzione cronologica delle trasformazioni anatomiche) può stabilire cosa sia Eoraptor.
Un’ulteriore prova della validità di questo approccio è data dalla recente descrizione di un nuovo dinosauro basale dal Triassico Superiore dell’Argentina, Panphagia protos (Martinez & Alcober, 2009). Panphagia protos è chiaramente un saurischio basale, e probabilmente è uno dei primi rappresentanti di Sauropodomorpha (almeno in base all’analisi effettuata finora). Al tempo stesso, esso mostra caratteri “theropodi”, tra i quali l’estesa cavitazione delle ossa lunghe, un carattere che alcuni ritengono “tipicamente theropode” e che, ad esempio, potrebbe avvalorare l’attribuzione di Eoraptor e Herrerasauridae a Theropoda. Attualmente non ho incluso Panphagia in Megamatrice (la quale, oltre a studiare le relazioni tra i theropodi, comprende anche i dinosauri basali e gli altri dinosauromorfi, proprio per testare al meglio le più probabili origini di Theropoda, e non solo le sue relazioni interne), ma spero di farlo presto: ciò che più mi interessa della sua inclusione nell’analisi non è la sua mera posizione (probabilmente sauropodomorfa) bensì l’effetto che la sua immissione provocherà sulla distribuzione di “caratteri chiave”, e, di conseguenza, una possibile alterazione della relazioni tra i saurischi basali. In particolare, sarà molto interessante vedere quale effetto avrà l’immissione di questo “sauropodomorfo basale con tratti theropodi” sulla posizione di Eoraptor, il presunto “theropode basale con tratti sauropodomorfi”.
Bibliografia:
Martinez R.N. & Alcober O.A., 2009 - A Basal Sauropodomorph (Dinosauria: Saurischia) from the Ischigualasto Formation (Triassic, Carnian) and the Early Evolution of Sauropodomorpha. PLoS ONE 4(2): e4397. doi:10.1371/journal.pone.0004397.

14 febbraio 2009

Il primo theropode jurassico dalla Mongolia

La documentazione fossile della Mongolia è tra le più ricche al mondo. Ciò è particolarmente vero per le formazioni del Cretacico Superiore. Al contrario, la documentazione giurassica della Mongolia è molto meno nota. Ad oggi, ed in contrasto con la vicina Cina, non si conoscevano theropodi giurassici mongolici.

Recentemente, Watabe et al. (2008) descrivono resti cranici molto frammentari dal Giurassico Superiore che potrebbero appartenere ad un theropode di taglia media. I resti consistono di un rostro, comprendente dentale e mascellare, con parte della dentatura. La morfologia dentaria esclude che sia spinosauroide, abelisauroide o maniraptoriforme. Gli autori attribuiscono i resti a Tetanurae incertae sedis, anche se le evidenze dirette (apomorfie) per questa attribuzione sono assenti.


Bibliografia:

Watabe M., Tsogtbaatar K. & Barsbold R., 2008 - First discovery of a theropod (Dinosauria) from the Upper Jurassic in Mongolia and its stratigraphy. Paleontological Research 12(1):27-36. 2008 doi: 10.2517/1342-8144(2008)12[27:FDOATD]2.0.CO;2.

12 febbraio 2009

Darwin Day 2009 - 2: In ogni pulcino di uccello respira un dinosauro mesozoico.

Charles Darwin è ricordato giustamente non solamente per la sua teoria della selezione naturale, la migliore spiegazione esistente, totalmente scientifica, priva di alcun riferimento soprannaturale, del perché esistano le innumerevoli forme viventi. Un altro dei suoi meriti fu quello di concentrare buona parte della sua argomentazione a spiegare come dettagli apparentemente bizzarri od insensati, esistenti negli esseri viventi, fossero pienamente comprensibili interpretandoli come vestigia, tracce, di una storia evolutiva passata, come evidenze di un meccanismo storico naturale di accumulo e modificazione di strutture pre-esistenti. Uno dei suoi punti di forza fu il ricorso allo sviluppo embrionale. Oggi, la sua eredità ci ha lasciato una teoria dello sviluppo, in base alla quale le fasi dello sviluppo embrionale conservano tracce di caratteristiche adulte ormai scomparse, ma presenti, probabilmente, negli adulti delle specie antenate.

Quale migliore modo di onorare Darwin e la sua teoria, se non mostrando uno dei più stupefacenti esempi dell’evoluzione, applicato ai theropodi?

Come ho detto sopra, la teoria darwiniana permette di dare un senso a fenomeni apparentemente insoliti e bizzarri, riconducendoli alla storia evolutiva. Uno di questi fenomeni è il processo di espansione dei sacchi aerei che osserviamo nella crescita individuale degli uccelli. Negli uccelli attuali, come ad esempio nel pollo (Gallus gallus), l’animale adulto ha un elaborato sistema di sacchi aerei che si collegano, tra le altre parti, allo scheletro. Dato che questo sistema di sacchi aerei è intimamente legato al polmone, sarebbe naturale (quasi ovvio) ipotizzare che lo sviluppo dei sacchi aerei negli uccelli segua un processo di progressiva espansione dei sacchi aerei a partire dal polmone, quindi dalla regione toracica. In realtà, il processo segue un modello differente a quello atteso: la pneumatizzazione inizia delle cervicali intermedie, poi completa le cervicali, parte dalle dorsali anteriori, e infine si avvia caudalmente, attorno alla zona sacrale. Questo meccanismo, apparentemente contro-intuitivo se interpretato in un ottica esclusivamente funzionale basata sugli uccelli viventi, è invece comprensibile se, darwinianamente, proiettiamo le fasi dello sviluppo individuale lungo la storia evolutiva dei theropodi. Se la teoria darwiniana ha ragione, le tappe dello sviluppo dovrebbero rappresentare vestigia delle condizioni adulte presenti nella serie di antenati degli uccelli attuali.

E così appare, in maniera meravigliosamente precisa, nei fossili.

Il disegno confronta il processo di espansione dei sacchi aerei lungo la colonna vertebrale nella crescita del pollo (quadrati neri) con l’espansione dei sacchi aerei nella filogenesi dei theropodi, così come evidente dalle tracce ossee. Nei theropodi basali come Coelophysis e Dilophosaurus, la pneumatizzazione della colonna vertebrale è limitata alle cervicali ed alle primissime dorsali (omologhe alle cervicali più posteriori degli uccelli moderni, che hanno un numero maggiore di cervicali rispetto ai primi theropodi). Risalendo lungo la linea che porta agli uccelli, osserviamo che nei tetanuri il processo di pneumatizzazione si estende alle dorsali anteriori, arretrando progressivamente verso la zona “lombare”. Parallelamente, in numerose linee si sviluppano pneumatizzazioni della colonna sacrale e della regione prossimale della coda. Questo processo raggiunge la forma estrema indipendentemente in tre linee di tetanuri derivati: Carcharodontosauridae, Oviraptorosauria e negli uccelli attuali.

Il fatto che l'ontogenesi individuale del sistema polmonare degli uccelli segua in maniera parallela e coerente l’evoluzione dello stesso sistema nei theropodi mesozoici non solo rafforza ulteriormente la nostra sicurezza sull’origine dinosauriana degli uccelli, ma conferma la straordinaria potenza concettuale ed esplicativa della teoria darwiniana, capace di operare una sintesi tra fenomeni distinti ed apparentemente slegati.

BUON DARWIN DAY A TUTTI!

Bibliografia:

Wedel M.J., 2008 - Evidence for Bird-Like Air Sacs in Saurischian Dinosaurs. Journal of Experimental Zoology, 311A.

http://svpow.wordpress.com/wedel-2009-on-air-sacs/